Imperatore romano. Omonimo
del padre, fu allevato dalla madre, Livia Drusilla, e dal secondo marito di lei,
l'imperatore Ottaviano Augusto. Ricevette una buona educazione letteraria ed
erudita (conosceva il greco) e fu avviato presto alla vita pubblica e militare:
nel 23 a.C. fu questore e dieci anni dopo console; partecipò a numerose
campagne militari, dimostrando doti di ottimo generale. Le sue maggiori imprese
furono però successive al consolato, sottomettendo e pacificando (12-11
a.C.) le province di Pannonia, Germania e Dalmazia. Dopo la morte di Agrippa (12
a.C.), genero di Augusto,
T. apparve come l'unico successore possibile
alla carica imperiale, posizione che Ottaviano stesso volle rinforzare,
ordinandogli il divorzio dalla prima moglie e il matrimonio con sua figlia
Giulia, per cui
T. oltre che figliastro divenne anche genero
dell'imperatore. Una nuova campagna in Germania gli valse, nel 7 a.C., il
trionfo militare, il secondo consolato e l'attribuzione della
tribunicia
potestas per cinque anni. Ciò nonostante la sua posizione, sulla
linea successoria, parve indebolita da analoghi e maggiori privilegi che Augusto
conferì ai suoi nipoti, figli di Giulia e di Agrippa, Gaio e Lucio. Per
questa ragione, forse,
T. lasciò la vita militare e si
ritirò a Rodi per alcuni anni (6 a.C. - 4 d.C.): tuttavia, l'esilio di
Giulia (cui seguì un ennesimo divorzio imposto a
T.) e la morte di
entrambi i nipoti fecero nuovamente di lui l'unico erede possibile della
dinastia Giulio Claudia. Augusto adottò
T., indicandolo quindi
come suo successore legittimo, ma imponendo che egli a sua volta adottasse il
nipote Germanico (figlio di suo fratello), escludendo così Druso minore,
figlio legittimo del suo primo matrimonio, dalla linea di successione. In cambio
l'imperatore riconfermò
T. nella potestà tribunizia per
dieci anni e gli conferì il comando proconsolare: quindi lo inviò
nuovamente in Germania, che
T. pacificò, in Pannonia, dove
represse una ribellione, e in Dalmazia, di cui ricostituì il confine
renano dopo la disfatta subita da Varo. Nel 14, alla morte di Augusto,
T.
accettò la successione, dopo che gli organi dello Stato gli ebbero
giurato fedeltà. La storiografia antica (Tacito, Svetonio, Cassio Dione),
largamente influenzata dall'appartenenza senatoria, ha tramandato un giudizio
negativo di Tiberio, rappresentandolo come una figura dispotica, illiberale e
crudele. Gli storici moderni, invece, ne stanno gradatamente riabilitando il
profilo, leggendo le sue azioni alla luce della difficile situazione,
soprattutto interna, che egli fu chiamato a governare.
T. infatti, che
rifiutò gli onori divini, si sforzò in principio di mantenere
l'equilibrio che Augusto aveva creato, soprattutto per quanto riguardava le
prerogative senatoriali: anzi al Senato egli restituì il potere esclusivo
di eleggere i magistrati, mantenendo però nelle sue mani sia il supremo
comando militare, sia quello amministrativo. In entrambe questi settori si
dimostrò assai abile, superando brillantemente la crisi economica che
interessò la penisola nel 33 e lasciando alla sua morte 2.000 milioni di
sesterzi di tesoro pubblico. Sul fronte estero e militare,
T. non si
lasciò tentare da inutili conquiste, ma mirò a stabilizzare i
confini: si attestò su Reno e Danubio, sfruttando abilmente le
ostilità esistenti tra le diverse tribù germaniche per pacificare
la regione; in Oriente, dopo aver annesso la Commagene alla Siria, e ridotto a
provincia la Cappadocia, si contentò di instaurare un protettorato
sull'Armenia, imponendo come re Zenone, e controllò l'ostilità dei
Parti con efficaci iniziative diplomatiche. Ricorse alle armi solo per sedare
alcune rivolte, nelle province d'Africa e in Gallia. A questo proposito ritenne
vitale intraprendere un rapido processo di romanizzazione delle province,
riducendo l'influenza delle popolazioni italiche per equipararvi anche gli altri
popoli; a questo scopo emise provvedimenti contro religioni e usanze che
potessero impedire o ritardare la romanizzazione delle popolazioni, colpendo in
particolare l'Ebraismo (e poi il Cristianesimo) e la religione gallica dei
Druidi. L'aristocrazia senatoria non tardò a mostrare la sua opposizione
al principato, che solo per necessità era stato tollerato sotto Augusto.
Essa fece di Germanico il proprio campione, da opporre all'imperatore, e quando
questi morì, nel 19,
T. venne velatamente accusato della sua
morte: si generò un clima di sospetto assai pesante, a causa del quale
l'imperatore varò una legge in base alla quale il delitto di
lesa
maestà poteva essere punito con la morte. Con questo strumento
T. governò di fatto i suoi rapporti con il Senato, precipitando i
maggiorenti romani in continue delazioni, processi e condanne capitali.
L'imperatore stesso volle sottrarsi a un ambiente tanto denso di sospetti e si
ritirò a Capri (26), continuando tuttavia a reggere con mano ferma
l'Impero. Solo Roma abbandonò al potere del suo prefetto del pretorio,
Elio Seiano, che, forte delle legioni pretoriane concentrate nell'Urbe,
seminò il terrore tra la nobiltà senatoria e sterminò
l'intera famiglia di Germanico, lasciando in vita il solo Caligola
(V.). Tuttavia, essendo stato avvisato di una
congiura voluta anche ai suoi danni,
T. provvide a destituirlo e a
condannarlo a morte, per una volta con l'appoggio del Senato (32).
T. non
tornò mai a Roma e morì lasciando eredi alla pari il nipote
Tiberio Gemello e Gaio Caligola (Roma 42 a.C. - Capo Miseno, Napoli 37
d.C.).